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Legge e dintorni

 Quando le imprese si tingono di verde:
luci e ombre dell’ambientalismo da etichetta

“Rispettoso dell'ambiente", "verde", "amico della natura", "ecologico", "sostenibile, “biodegradabile”: il c.d. green marketing ha avuto uno sviluppo sempre crescente negli ultimi anni. Si tratta di una prassi, molto diffusa anche nel settore cosmetico, consistente nell’apposizione di particolari claims sui prodotti o sulle loro confezioni, che contribuiscono a suggerire un approccio etico e sostenibile dell’impresa che li adotta. I “green claims”, o asserzioni ambientali, sono espressioni tese a dare l'impressione che un prodotto o un servizio abbia un impatto positivo (o sia del tutto privo di ripercussioni) sull'ambiente, o sia quantomeno dannoso in misura minore per l'ambiente rispetto a prodotti o servizi concorrenti.


Si tratta di claims che hanno un impatto molto forte nei confronti del consumatore, considerata la crescente consapevolezza green e la volontà di contribuire attivamente con scelte eticamente orientate, prediligendo l’offerta di prodotti che nel proprio ciclo produttivo consentono un particolare rispetto dell’ambiente e che, proprio per questo, sono dotati di un particolare appeal commerciale tra gli acquirenti che si sentono in dovere di fare la propria parte al momento dell’acquisto.


Occorre tuttavia prestare particolare attenzione all’utilizzo dei green claims, dato che un uso superficiale (o, tanto più, deliberatamente ingannevole) di questi ultimi può integrare un illecito sotto diversi punti di vista. Nell’ambito del green marketing, infatti, il rovescio (illecito) della medaglia è rappresentato dalla pratica nota come “greenwashing”, definita, in termini extragiuridici, come “disinformation disseminated by an organization so as to present an environmentally responsible public image” (dal sito web lexico.com, elaborato in collaborazione con la Oxford University Press). Il termine “greenwashing” deriva dall’accostamento dei due termini “green” - parola che evoca nel consumatore medio l’idea di un beneficio assoluto per l’ambiente o comunque di un’assenza di danno per l’ambiente - e “whitewash”, che in inglese significa “imbiancare” e, in senso figurato, “coprire”, “mascherare, “insabbiare”.


Il greenwashing consiste pertanto nel millantare presunti benefici ambientali connessi alla propria azienda o ai propri prodotti fabbricati per suscitare un interesse commerciale in quei consumatori sensibili alle tematiche ambientali, senza tuttavia che detti benefici ambientali sussistano affatto ovvero sussistano nei limiti descritti.


Non esiste, ad oggi, una normativa ad hoc in materia di greenwashing, ma è in ogni caso possibile operare un inquadramento dell’istituto alla luce dei principi generali dell’ordinamento nazionale e sovranazionale.


Indurre nei consumatori l’erronea convinzione che l’impresa commercializzi prodotti “eco-friendly”, quando così non è, si pone infatti, anzitutto, in contrasto con il divieto di compimento di pratiche commerciali sleali, come delineato dalla Direttiva n. 29/2005/UE, recepita nell’ordinamento giuridico italiano a mezzo del d.lgs. 205/2006, c.d. Codice del Consumo. In particolare, il Codice del Consumo individua due categorie di pratiche commerciali meritevoli di censura: le pratiche commerciale aggressive e le pratiche commerciali ingannevoli. Ed è proprio tra le pratiche commerciali ingannevoli che occorre guardare per scorgere i primi profili di criticità legati al greenwashing. Le pratiche commerciali ingannevoli, che possono consistere tanto in azioni quanto in omissioni ingannevoli, sono quelle pratiche - tra cui la pubblicità ingannevole – che, inducendo in errore il consumatore, gli impediscono di scegliere in modo consapevole e, di conseguenza, in modo razionale.


La Commissione Europea, in un documento di orientamento relativo all’applicazione della Direttiva n. 29/2005/UE pubblicato il 25 maggio 2016, si è occupata espressamente del tema delle asserzioni ambientali al Paragrafo 5.1, chiarendo che quando i green claims non sono veritieri o non possono essere verificati, integrano gli estremi del greenwashing, descritto come una «appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di un'immagine "verde"».


A seconda delle circostanze, tale pratica può comprendere tutti i tipi di affermazioni, informazioni, simboli, loghi, elementi grafici e marchi, nonché la loro interazione con i colori, impiegati sull'imballaggio, sull'etichetta, nella pubblicità, su tutti i media (compresi i siti Internet), da qualsiasi organizzazione che si qualifichi come "professionista" e ponga in essere pratiche commerciali nei confronti dei consumatori.


Il fenomeno è stato oggetto proprio nel corso dell’anno corrente di particolare attenzione da parte della Commissione Europea che, in data 28 gennaio 2021, ha pubblicato i risultati dell'indagine a tappeto che viene effettuata ogni anno per individuare violazioni del diritto dell'UE in materia di tutela dei consumatori nei mercati online, e che nel 2021 ha avuto ad oggetto nello specifico il greenwashing. L’indagine ha evidenziato che «in oltre la metà dei casi, il commerciante non aveva fornito ai consumatori informazioni sufficienti per valutare la veridicità dell'affermazione; nel 37 % dei casi, l'affermazione conteneva formulazioni vaghe e generiche, come "cosciente", "rispettoso dell'ambiente", "sostenibile", miranti a suscitare nei consumatori l'impressione, priva di fondamento, di un prodotto senza impatto negativo sull'ambiente; inoltre, nel 59 % dei casi, il commerciante non aveva fornito elementi facilmente accessibili a sostegno delle sue affermazioni». Ad una valutazione complessiva, che ha tenuto conto di diversi fattori, detta indagine ha pertanto concluso nel senso che, su 344 asserzioni ambientali apparentemente dubbie, nel 42 % dei casi è stato rilevato che l'affermazione potesse essere falsa o ingannevole e potesse potenzialmente configurare una pratica commerciale sleale a norma della direttiva sulle pratiche commerciali sleali.


Si tratta di un dato decisamente importante, che evidenzia come buona parte della comunicazione commerciale “green” è fatta in malafede ovvero in modo superficiale. A livello nazionale, è stato attribuito all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) il ruolo di vigilare sulla corretta applicazione di detti principi, assegnando all’AGCM poteri sanzionatori piuttosto pervasivi. Oltre ad inibire la comunicazione ingannevole, l’AGCM può infatti comminare una sanzione amministrativa fino ad un massimo edittale di Euro 5.000.000.


Un ulteriore profilo di censura si rintraccia inoltre nel Codice dell’Autodisciplina Pubblicitaria (emanato dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria - IAP), che, all’articolo 12, prevede che “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”. In questo caso i provvedimenti adottati dal Giurì (1) possono consistere nell’ordine di cessazione della comunicazione commerciale ritenuta in contrasto con detto divieto.


Inoltre, sotto il profilo strettamente civilistico, il greenwashing può ritenersi una condotta di concorrenza sleale i sensi dell’art. 2598 co. 3 del Codice civile, consistente nell’avvalersi di “ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda”.


È del tutto evidente, infatti, che il greenwashing, se da un lato danneggia il consumatore, inducendolo a compiere una scelta commerciale viziata da un erroneo convincimento, dall’altro reca altresì pregiudizio alle imprese che agiscono in maniera corretta, ponendo sullo stesso piano (agli occhi del pubblico) chi agisce in conformità alle regole ed alla correttezza professionale e chi invece - ovviamente con costi inferiori - dà solo l’apparenza di aver effettuato investimenti in un’ottica green.


Quali sono, dunque, le regole da seguire per evitare di incorrere in sanzioni?


Come chiarito dal documento di orientamento della Commissione Europea del 25 maggio 2016, da un esame dei principi generali contenuti nella direttiva in materia di pratiche commerciale scorrette, si ricavano i seguenti principi cardine in grado di fungere da guida per un corretto utilizzo delle asserzioni ambientali:

  1. obbligo per gli imprenditori di presentare le loro dichiarazioni ecologiche in modo chiaro, specifico, accurato e inequivocabile, al fine di assicurare che i consumatori non siano indotti in errore;
  2. onere in capo agli imprenditori di disporre di prove a sostegno delle loro dichiarazioni ed essere pronti a fornirle alle autorità di vigilanza competenti in modo comprensibile qualora la dichiarazione sia contestata.

Non solo. Il documento individua anche un’interessante casistica di asserzioni ambientali che integrano gli estremi del greenwashing; di seguito un estratto delle più rilevanti:

  1. utilizzare il termine "biodegradabile" (2) per un prodotto che in realtà non lo è o per il quale non sono state effettuate prove;
  2. indicazione di benefici ambientali vaghi e generici, quali "rispettoso dell'ambiente", "verde", "amico della natura", "ecologico", "sostenibile", "sicuro per l'ambiente", "attento ai cambiamenti climatici" o "a basso impatto ambientale";
  3. adozione di una asserzione ambientale che evidenzia soltanto uno dei vari impatti del prodotto sull'ambiente, limitandosi a enfatizzare il risparmio energetico conseguito in una particolare fase del ciclo produttivo ma omettendo di effettuare un bilancio complessivo (3);
  4. presenza di un claim formulato in modo ambiguo, tanto da non essere chiaro se l'asserzione riguardi l'intero prodotto o soltanto un suo elemento, o le prestazioni ambientali generali dell'impresa o soltanto di alcune sue attività, o a quale impatto o processo ambientale l'asserzione si riferisca;
  5. falsa dichiarazione circa l’adesione del professionista a un codice di condotta relativo alle prestazioni ambientali dei prodotti;
  6. esibizione di un marchio di fiducia, un marchio di qualità o un marchio equivalente, senza aver ottenuto la necessaria autorizzazione (4);
  7. dichiarazione circa il fatto che il prodotto è privo di determinate sostanze, quando la presenza di determinate sostanze è già vietata dalla legge.

Al fine di ricavare ulteriori indicazioni, di segno positivo, di aiuto alle imprese viene infine in soccorso la c.d normazione tecnica-volontaria, come ad esempio le norme ISO (5). Si tratta in particolare di normativa non cogente, la cui applicazione è, appunto, su base volontaria (le norme ISO assumono valore imperativo laddove richiamate dalla legge o contenute in un contratto), che definisce degli standard tecnici.


Si pensi, ad esempio, alla norma ISO/TS 17033 del 2019 - Ethical Claims and supporting information – Principles and Requirements, recepita in Italia da UNI (6) nel gennaio 2020, che si pone l’obiettivo di appurare che il claim sia di tipo etico, verificabile, accurato e non fuorviante. La norma è di portata generale, potendo dunque fungere da valido supporto anche per la valutazione della correttezza dei green claims nel settore della cosmesi.


Di particolare importanza è poi la UNI EN ISO 14021:2016, che fornisce un elenco di requisiti generali da osservare per le asserzioni ambientali che siano frutto di un’autodichiarazione, fornendo alle imprese interessate delle linee guida da osservare per elaborare dei claim corretti.


Altro riferimento rilevante è la norma internazionale ISO/IEC 17029 - “Conformity assessment – General requirements for verification and validation bodies” (recepita in Italia da UNI nel gennaio 2020), che prevede un meccanismo di controllo ex ante (di plausibilità) e/o ex post (di veridicità) del claim pubblicitario adottato dall’impresa da parte di un terzo indipendente, attraverso l’esibizione di un’evidenza oggettiva che ne confermi la validità scientifica.


Sebbene detti strumenti siano senz’altro degli utili riferimenti da adottare per un green marketing corretto e veritiero, che vada dunque esente da censure, occorre tuttavia tenere presente che per le autorità indipendenti, quali l’AGCM, l’adozione di certificazioni ISO non è di per sé vincolante, potendo l’Autorità ritenere illecito il claim, alla luce delle circostanze concrete del caso, pur in presenza delle citate certificazioni tecniche (7).


Per queste ragioni l’assistenza di un professionista è imprescindibile, per evitare che uno strumento in grado di attribuire un rilevante vantaggio competitivo si traduca in un illecito in grado di provocare serie conseguenze a chi ne faccia un uso superficiale.

REFERENZE