In pillole
Una finestra aperta sul grande vocabolario degli integratori nutrizionali
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Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, più di 2 miliardi di persone in tutto il mondo hanno una qualche carenza di vitamine e minerali essenziali.
Anche per quanto riguarda gli Stati Uniti, gli studi sulla popolazione hanno identificato numerosi deficit: in primis di vitamine A, C, D ed E, e poi ancora di colina, calcio, magnesio, ferro e potassio, ma non solo. Si tratta di dati allarmanti, che implicano importanti effetti sulla salute dei cittadini e sul carico del sistema sanitario, ma che apparentemente contrastano con altri numeri, quelli che certificano dall’altra parte che la popolazione statunitense fa un ampio utilizzo di integratori alimentari: circa la metà di tutti gli adulti statunitensi assume infatti una qualche forma di integratore alimentare, con vitamine e integratori minerali. Tuttavia, andando ad analizzare i dati in dettaglio, è possibile osservare che - paradossalmente - gli integratori alimentari sono spesso utilizzati da individui che hanno già diete ricche di sostanze nutritive: in particolare ad esempio tra le donne anziane, che stando ai dati sembrano assumere un numero maggiore di integratori, con un conseguente rischio potenziale di un eccesso di integrazione e un’eccessiva assunzione di nutrienti.
Tra gli integratori più amati dagli adulti americani, sebbene il loro uso sia complessivamente diminuito negli ultimi anni (dal 37-40% nel 1999-2006 al 31% nel 2011-2012), il ruolo principe spetta agli integratori multivitaminici/multiminerali (MVMS): ad aprile 2017, il database delle etichette degli integratori alimentari del US National Institutes of Health Office of Dietary Supplements e National Library of Medicine elencava ben 1404 diversi prodotti con vitamine/minerali contenenti la parola “multi”.
Con quali effetti? A gettare luce sulla questione interviene un’interessante revisione pubblicata sulla rivista Nutrients, che riassume i risultati sull’utilizzo di integratori multivitaminici/multiminerali nei soggetti adulti emersi da un documento del 2017 dell’American Society for Nutrition presentato nel corso del congresso Experimental Biology di Chicago.
La sessione ha esaminato il ruolo dei MVMS e ha descritto le prove emerse da studi osservazionali e studi randomizzati e controllati, che hanno valutato gli effetti dell’utilizzo di MVMS e gli esiti sulle malattie croniche.
Gli autori della review specificano che il ruolo dei MVMS nel mantenimento della salute e nella prevenzione delle malattie croniche rimane controverso. La conduzione di studi in quest’area è stata ostacolata, tra gli altri fattori, da definizioni incoerenti di MVMS, che vanno da un minimo di tre vitamine a prodotti ad ampio spettro contenenti più di due dozzine di vitamine e minerali. L’avvento della nutrigenomica e la maggiore capacità di studiare direttamente le interazioni tra nutrizione e variabili genetiche consentiranno la conduzione di studi più mirati, con endpoint specifici, e potranno infine portare a progressi nel campo della nutrizione personalizzata.
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Integratori multivitaminici: sono efficaci?
Il deficit di vitamina D è un problema comune in tutto il mondo: facilmente misurabile attraverso semplici analisi del sangue, tra i sintomi più comuni ci sono dolori alle ossa e debolezza muscolare, sudore alla testa e alle mani. L’ipovitaminosi D causa un anomalo assorbimento del calcio: le ossa diventano quindi più fragili (osteomalacia) e si rischiano deformazioni scheletriche, problemi alle articolazioni, osteoporosi e facilità di fratture; il deficit di vitamina D porta a rachitismo nei bambini durante la crescita e provoca una ossificazione incompleta, e inoltre spesso accade anche che i muscoli si sviluppino male e si intorpidiscano causando formicolii, crampi e spasmi (tetania).
Esiste quindi un consenso unanime nel mondo scientifico sulla necessità della presenza di livelli adeguati di vitamina D per la salute delle ossa e per una buona condizione generale, anche se è ancora questione di dibattito quale possa essere il metodo più corretto con cui ripristinare i normali livelli di vitamina D.
La somministrazione di colecalciferolo rimane la scelta più comunemente adoperata per la supplementazione di vitamina D, sebbene esistano anche altri integratori per sopperire all’ipovitaminosi D, e quindi la scelta corretta per il singolo paziente può essere oggetto di attenta valutazione.
Una recente review ad opera di Roberto Cesareo, Alberto Falchetti, Roberto Attanasio, Gaia Tabacco, Anda Mihaela Naciu e Andrea Palermo, pubblicata su Nutrients, si propone di fornire un utile contributo alle attuali conoscenze sull’uso possibile e appropriato del calcifediolo – il metabolita 25-alfa-idrossilato – in relazione alle sue caratteristiche chimiche, alle sue proprietà biologiche e ai suoi aspetti fisiopatologici, prendendo inoltre in esame i trial che hanno puntato a valutare l’effetto del calcifediolo sul ripristino dei normali livelli di vitamina D, e giungendo ad alcune conclusioni di rilievo.
Allegati
Falchetti et al., Hypovitaminosis D: Is It Time to Consider the Use of Calcifediol?
Ipovitaminosi D, nuove evidenze sul ruolo del calcifediolo
La carenza di vitamina D è molto comune, e le problematiche correlate ad un’ipovitaminosi D possono pregiudicare significativamente le condizioni di salute, sia nei soggetti in via di sviluppo che in quelli adulti; di conseguenza, i test per rilevare questi deficit sono sempre più frequenti, così come sono in aumento le prescrizioni di integratori di questa vitamina, con costi crescenti per la spesa sanitaria.
È quindi importante stabilire parametri di valutazione e linee guida di azione a tale proposito: per questo, l’Associazione Medici Endocrinologi ha incaricato una task force della realizzazione di una revisione della letteratura sulla carenza di vitamina D negli adulti, giungendo alla pubblicazione -condivisa con la American Association of Clinical Endocrinologists- di un position statement sulla gestione clinica della carenza di vitamina D nei soggetti adulti.
Il documento condiviso si è sviluppato attorno a quattro questioni fondamentali:
- Quale valore limite definisce la carenza di vitamina D;
- Dove, come e quando eseguire gli screening per la carenza di vitamina D;
- Quali sono i soggetti che hanno bisogno di supplementazione, e come va trattata la carenza di vitamina D;
- Come monitorare l’efficacia del trattamento con vitamina D.
Le conclusioni sono consultabili nel documento sottostante.
Allegati
Il trattamento clinico delle carenze di Vitamina D nei soggetti adulti
Il termine “vitamina K” è comunemente utilizzato per rappresentare un gruppo di vitamine liposolubili, strutturalmente simili, identificate meno di 100 anni fa.
Diverse forme di vitamina K sono state descritte in natura e rappresentano vitamine liposolubili uniche, con una specifica funzione di coenzima (processi di carbossilazione): K1, K2, e K3.
La vitamina K1 è presente nelle piante/verdure, in più alta quantità in verdure a foglia verde, direttamente coinvolta nella fotosintesi. Gli animali possono anche convertirla a K2.
La maggior parte della produzione di K2 avviene nel colon: le molecole di vitamina K2, o menachinoni, sono prodotte a livello intestinale da sintesi batterica. Le principali forme alimentari si trovano, per lo più, in alimenti contenenti grassi, ad esempio formaggio fermentato, che ne miglioreranno l’assorbimento e la biodisponibilità rispetto alla K1.
La vitamina K3, o menadione, rappresenta una molecola provitaminica ed è un analogo sintetico, non usato come integratore nutrizionale nei paesi economicamente sviluppati per la sua potenziale tossicità.
Oggigiorno, sono quindi disponibili molti prodotti contenenti diversi metaboliti della vitamina K, sia di origine naturale che di derivazione sintetica, e per molti di essi si fa riferimento ad un non meglio specificato effetto benefico per la “salute delle ossa”.
È pertanto necessario e utile affrontare questo aspetto specifico del loro uso, descrivendo lo stato dell’arte alla luce degli studi di ricerca di base, traslazionali e clinici, riportati in letteratura. Roberta Cosso e Alberto Falchetti, membri del Gruppo EndOsMet, hanno dedicato al rapporto tra Vitamina K e metabolismo osseo una importante Review, che mira a fornire strumenti culturali di base per migliorare la conoscenza dei lettori sull’uso della vitamina K per la salute delle ossa, aiutandoli a svilupparsi in modo indipendente spirito critico.
Una revisione che giunge a conclusioni interessanti: come specificano gli autori infatti, in realtà, ad oggi non abbiamo alcuna certezza di una reale efficacia della vitamina K nella prevenzione delle fratture da fragilità.
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